giovedì 22 maggio 2008

Campioni e massacri

Fonte: Il Manifesto
Segnalato da Mimmo

L'Inter di Moratti festeggia uno scudetto da brividi arpionato sotto il diluvio dal genio di Ibrahimovic.
Nonostante il tifo contro e i fantasmi del passato
Roberto Andreotti

«Non sono riusciti a dare lo scudetto all'Inter», gridava otto giorni fa un quotidiano sportivo romano noto per la sua obiettività. Quel titolo mite e super partes lanciava l'assalto finale allo scudetto già «perduto» a febbraio (-11 punti) - mentre lo scudetto «morale», naturalmente, era comunque appannaggio di Totti e compagni. Una volta partito il tam tam, poiché fama crescit eundo, l'Inter si è ritrovata accerchiata da un fastidioso pressing che via via raccoglieva adesioni e rancori, cementando alleanze storicamente improbabili (la Juventus con la Roma!).
Adesso che la valanga è stata discretamente respinta ai mittenti, si può affermare con serenità che semmai è stata l'Inter a «non riuscire» a dare il suo scudetto alla Roma, dopo aver sprecato due match-point - come si è detto in queste settimane con metafora tennistica: l'Inter dalle complicazioni interiori successive alle dimissioni di Mancini a marzo; l'Inter dei corposi fantasmi del 5 maggio 2002 o, addirittura, di Mantova 1967; l'Inter con la sua tenerezza «buonista» di società ricca però mai arrogante; l'Inter con la caterva di infortunati cronici «concessi» quest'anno alla concorrenza (Materazzi, Samuel, Figo, Cordoba ecc.) - ultimo in ordine di apparizione quell'Ibrahimovic tornato infine dopo due mesi come un Achille sconquassante a ristabilire la distanza delle forze in campo (l'Inter è leader ininterrotta, in pratica, da ventiquattro mesi): «Voi parlate, io gioco» è stato il suo laconico commento, un vero incubo «di stile» per tutti i fanfaroni che nelle ultime settimane pregustavano il sadico sorpasso.
Non sembra ci fosse l'understatement di Ibrahimovic (e neanche la stessa forza risolutiva) in molte dichiarazioni rilasciate prima, e dopo, dai giocatori della Roma - a cominciare dal De Rossi che «per onestà intellettuale» (sic!) non ha potuto fare a meno di ribattere sul solito chiodo degli «aiutini» arbitrali. Simili frasi non alleggeriscono certo gli animi ardenti, né dei vincitori né degli sconfitti, e sabato sera allo stadio Olimpico è in programma la finale di Coppa Italia, ancora Roma contro Inter. Non è difficile immaginare che certi media proveranno a «gonfiare» una competizione di mediocre importanza per trasformarla in una specie di ordalia, che dovrà stabilire «davvero» chi è il più forte; ma specie dopo i fatti teppsitici di Parma ci si augura che né l'Inter né la stessa dirigenza della Roma cadano nel tranello. Magari un gesto cavalleresco verso i nuovi Campioni d'Italia potrebbe aiutare a svelenire.
E veniamo all'Inter. La aspettano due urgenti questioni, una societaria e una tecnica. La prima parte dalla domanda: come mai in soli tre anni è diventata così «antipatica»? Facile rispondere che i perdenti ottengono solidarietà da tutti senza sforzo, altro conto è farsi «amare» strozzando per manifesta superiorità quasi due campionati di fila. Ma certo ora Moratti, archiviato il «suo» Centenario, deve pensare a voltar pagina, e a far di nuovo rispettare l'Inter e il suo strapotere sportivo smorzando il perno retorico (legittimo, per carità) della «società degli onesti». E poi forse dovrebbe fare un passo indietro, trovando il «sostituto» del grande Facchetti: un presidente-immagine che rappresenti la proprietà senza doverla esporre, mostrando - quando è necessario - il viso duro (vedi la montatura, in settimana, delle rivelazioni «a orologeria» sulle intercettazioni a danno dei giocatori e dell'allenatore).
Il quid tecnico ruota invece intorno al nome di Roberto Mancini, altro bersaglio mediatico su cui tutti si esercitano da tempo in un gioco al massacro. Simpatico? Antipatico? Non pare che siano qualità decisive nella conduzione di una squadra di calcio. A Mancini andrà chiesto conto, certo, di tre consecutivi fallimenti in Champions League (difetto di mentalità o di preparazione atletica?), a patto che si parta però dal podio assoluto - che solo lui è riuscito a scalare - dei due scudetti + uno portati a casa. Mancini sarebbe osteggiato anche da consistenti frange di sostenitori interisti. C'è da augurarsi che invece resti al suo posto, sciolti i nodi che ora verranno al pettine. Ha dato gioco, carattere e personalità a una squadra per troppi anni in balia dei suoi sogni; e poi un Mourinho, paradossalmente assai più «antipatico» di lui, sarebbe capace di «rovinare» l'Inter mettendola in ginocchio per 10 anni.
Gli anti-manciniani, credo, si sono fatti abbagliare dagli specchietti dei «cugini» rossoneri, che anche quest'anno sono riusciti nell'impresa, questa sì aziendalista e profondamente berlusconiana, di far dimenticare il baratro di punti che li separa dall'Inter gonfiando un titolo «finto» e pubblicitario (giapponese, appunto), conseguito in un mini-torneo contro squadre inesistenti sul piano sportivo e storico.
L'Inter «meticcia» e multirazziale di Zanetti, Balotelli e Ibrahimovic deve stringere orgogliosamente questo scudetto, senza invidia per nessuno: «campione d'Italia» è un titolo dal sapore antico, ma oggi è molto più «democratico» e solido di certe manifestazioni internazionali geneticamente modificate dagli sponsor. Quanto alla presunta superiorità del gioco romanista, meglio non agitarsi. L'osservazione più condivisibile, e piena di humour, resta quella di Gigi Simoni: «la mia Inter - ha detto qualche giorno fa - giocava verticale e veloce come la Roma di Spalletti, però a me davano del contropiedista». Se proprio Mancini dovesse lasciare, ecco un allenatore «da Inter»: moralmente integro, ironico.

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