giovedì 27 settembre 2012

4 ottobre 2012 - Presentazione del libro “La trappola”

Giovedì 4 ottobre alle ore 18.00 presso la Libreria la Feltrinelli di Varese, Corso Aldo Moro 3 (All'incontro sarà presente l'Autrice) 


Una giovane donna, africana, calciatrice. Un sogno, l'Europa, che chiama Mbeng. Il racconto di un viaggio che è una vita – settemila chilometri in otto anni. 
Un percorso lungo e tortuoso nel tempo e nello spazio, aggrappata al football per avvicinare l’Europa. La storia di un inganno, di un sogno – la fortezza Mbeng – che è

illusione. E la narrazione di una rinascita, ritornando all’Africa.

E' la sintesi del libro-testimonianza La trappola, scritto dalla camerunese Clariste Soh Moube nel 2009 e appena pubblicato in Italia da Infinito edizioni con le prefazioni di Aminata Traoré, Dagmawi Yimer e Giulio Cederna.

Dalla fine della sua odissea Clariste vive a Bamako, in Mali, dove a fianco di Aminata Traorè – una delle grandi voci dell'altermondialismo africano - lavora come assistente ricercatrice presso il Centro Amadou Hampaté Ba.

Grazie a Medici con l’Africa CUAMM Varese, in collaborazione con APA/Amici Per l'Africa,
Clariste è in Italia in questi giorni per un tour di presentazioni del libro che la porterà anche a Ferrara ospite del Festival Internazionale di Letteratura. La sua presenza ci consentirà anche di inquadrare l'attuale situazione e le prospettive del Mali, suo paese d'adozione, dopo il colpo di stato del marzo scorso e la successiva divisione tra il sud del paese e il nord in mano ai gruppi jihadisti Aqmi (Al Qaida nel Maghreb Islamico) e Ansar Dine (Difensoridella Fede).

LA TRAPPOLA
L’odissea dell’emigrazione, il respingimento, la rinascita di Clariste Soh-Moubé, traduzione di Max Hirzel, prefazione di Giulio Cederna, introduzione di Dagmawi Yimer, presentazione di Aminata D. Traore
Infinito Edizioni, pag. 158, € 13,00

Dalle prefazioni di Dagmawi Yimer e Giulio Cederna
“Cara sorella e compagna di viaggio, chiunque leggerà questo tuo libro ricordi che dietro ciascuna persona che viene pestata, ammazzata, annegata in mare o umiliata, stuprata, c’è almeno una madre che la pensa, che l’aspetta. Attraverso il tuo racconto ho intravisto le donne e le ragazze che hanno viaggiato con me. Donne con nomi e cognomi, che hanno
lasciato dietro madri, padri, fratelli, figli, prima che questo viaggio le spogliasse di tutto”.
(Dagmawi Yimer)

“La testimonianza di Clariste ci interroga. Ha il merito di illuminare dall’interno la Trappola: il paradosso di un mondo che ha globalizzato i bisogni e georeferenziato i diritti, promesso lo scambio universale dei sogni e delle merci, e costruito muri altissimi per arginare la libera circolazione degli esseri umani”. (Giulio Cederna)

Modera l’incontro il medico-scrittore varesino appassionato d’Africa Dino Azzalin.


mercoledì 26 settembre 2012

INTER CLUB KAYUNGA per la stagione 2012-2013

Cari soci,

la nuova stagione calcistica è alle porte e di conseguenza parte anche la nuova campagna tesseramenti all’INTER CLUB KAYUNGA per la stagione 2012-2013.

La scorsa stagione calcisticamente parlando è stata avara di soddisfazioni e dopo sei stagioni in cui i colori nerazzurri hanno primeggiato in Italia, in Europa e nel Mondo, siamo rimasti a guardare gli avversari alzare i trofei stagionali, ma certi che i nostri colori, nonostante un certo vento di ridimensionamento, torneranno a competere ai massimi livelli in ogni competizione.

Vi invitiamo a continuare a sostenerli e soprattutto a rinnovare la tessera del club, in considerazione del fatto che il nostro club al di la delle vicende puramente sportive da cui nasce, ha delle finalità ancor più alte…..

Come ben sapete attraverso la nostra passione cerchiamo, nel possibile, di far arrivare qualche piccolo aiuto ai nostri amici ugandesi. In questi anni grazie al nostro interessamento che ha favorito il contatto tra l’INTER e il CUAMM Medici con l’Africa, le attività di Inter Campus sono diventate operative presso la scuola di Nagallama e da qualche tempo si sono attivate anche presso altre strutture nel nord del paese dove la situazione locale è ancor più disagiata.

Seppur l’intervento di tale organizzazione è finalizzato principalmente ad attività sportive/ricreative, il movimento, l’interesse e le novità che portano smuovono altre situazioni. A tal proposito vi invitiamo a prendere visione, attraverso il nostro blog, di una videointervista che il nostro presidente Italo Nessi ha effettuato nelle scorse settimane negli studi di InterChannel in cui racconta la realtà locale, il tutto accompagnato da immagini dei luoghi e delle attività sopra citate.

In occasione dell’ultima assemblea tenuta in data 11 luglio si è concordato tra i soci presenti di porre come data limite, per la raccolta dei rinnovi o eventuali nuove iscrizioni, il 30 settembre p.v. in modo di consentire al coordinamento di stampare tutte le nuove tessere e poter ritirare le stesse con i relativi gadget in una sola volta entro una data che non vada oltre fine ottobre inizio novembre.

Le quote associative rimangono invariate, nonostante l’aumento di 1 euro della quota da versare al coordinamento, quindi si tratta di euro 25 per i soci senior e di euro 10 per i soci junior. Naturalmente saranno ben accetti nuovi soci, per i quali servirà fornire tutti i dati anagrafici comprensivi di codice fiscale.

In conclusione rinnoviamo quindi l’invito a formalizzare fin d’ora il rinnovo della tessera del club attraverso i vostri soci di riferimento o inviando mail di conferma all’indirizzo ernyele@alice.it

Ricordiamo inoltre che il club dispone di due abbonamenti allo stadio al secondo anello arancio validi oltre che per il Campionato anche per le partite di Europa League e Coppa Italia. Formalmente tali abbonamenti sono intestati a Italo e Bruno, ma potranno essere usati da chiunque ne farà richiesta tramite accordo in tempi utili rispetto la data della partita a cui si è interessati, versando euro 25 per abbonamento ed effettuando il passaggio di utilizzo attraverso l’apposita sezione nel sito www.inter.it. Da questa stagione tali abbonamenti non saranno più caricati sulla tessera del tifoso degli intestatari, quindi per l’utilizzo da parte di terzi non è necessario il possesso della personale tessera del tifoso, se non espressamente richiesta per disposizione delle autorità di pubblica sicurezza.

Cordiali saluti
Il Direttivo
INTER CLUB KAYUNGA

lunedì 10 settembre 2012

La lezione incompresa del tiki-taka


Articolo di Luigi Cavallaro uscito su Alias 8 settembre 2012
Segnalato da Mimmo Arnaboldi

A due mesi dalla dura sconfitta con la Roja nella finale degli Europei, una riflessione sulla ricchezza strutturale e i «debiti» del modello spagnolo

Profittando della pausa del campionato, con le squadre nazionali di nuovo in campo per disputarsi le qualificazioni ai prossimi Mondiali del Brasile, è forse possibile tornare a riflettere sulla lezione impartita a tutti
noi dalla Spagna in occasione dell'ultimo Europeo di calcio. Una lezione che, nonostante la severità con cui si è materializzata ai nostri danni (un imponente 4-0, che ha fissato il nuovo record di scarto in una finale del torneo), stènta ad essere compresa nel suo vero significato e soprattutto nelle sue implicazioni.
Il fatto è che il «modello spagnolo» è una costruzione troppo strana per poter essere davvero recepita dalla
cultura dominante nel nostro Paese.
Anzitutto, perché non si tratta di una edificazione semplice e lineare, ma piuttosto di un patchwork stratificatosi nel tempo, che ha messo insieme principi e sistemi di gioco lontanissimi dal nostro modo di intendere il calcio. Prendiamo il famoso o famigerato tiki-taka. Sebbene il suo nome dati piuttosto di recente (pare sia stato coniato in occasione dei mondiali 2006 da un telecronista della tv spagnola per fotografare in modo onomatopeico l'interminabile fraseggio della Roja), le sue origini risalgono ai primordi del calcio e sono scozzesi: furono infatti due britannici, Arthur Johnson e Jack Greenwell, a insegnare il passing game ai calciatori del Real Madrid e del Barcellona.
È un calcio che al solipsismo del dribbling predilige un movimento corale fatto di veloci combinazioni di
passaggi palla a terra, e in cui la tecnica individuale risulta essenziale non tanto per districarsi in slalom fra
mute di avversari, ma per controllare il passaggio ricevuto e indirizzarlo ad un compagno smarcato nel più breve tempo possibile. Gli scozzesi lo opposero agli inglesi fin dalla prima partita internazionale che là storia del calcio ricordi, a Glasgow, il 30 novembre 1872, riuscendo a concludere il match sullo 0-0 nonostante la loro minore prestanza fisica rispetto agli avversari (un fatto sottolineato dalle cronache di allora, che troppo importante era la stazza degli atleti in quel tempo in cui il calcio cominciava faticosamente a separarsi dal rugby). Ma già nel 1920 il Madrid Sport scriveva di come il Barcellona giocasse «con profusioni de elegancia en el juego raso de pases cortos».
Oppure consideriamo la scelta tattica che più ha fatto discutere i nostri commentatori, quella di schierare Cesc Fàbregas come falso nueve, cioè come finto centravanti.
La sua genesi è ungherese e rimonta alla seconda grande fecondazione subita dal calcio iberico, intorno alla
metà degli anni '50, quando alcuni dei calciatori più talentuosi della grandissima squadra che aveva incantato ai Mondiali del '54 - Laszlo Rubala, Sandor Kocsis, Zoltan Czibor e Ferenc Puskas - approdarono in Spagna, dividendosi tra Barcellona e Real Madrid. Era il periodo in cui in tutta Europa si andava generalizzando l'impiego del WM, un modulo che richiedeva come terminale offensivo un centravanti grande e grosso («un toro privo di cervello che attacca a testa bassa», secondo la pregnante caratterizzazione di Brian Glanville).
E poiché in Ungheria praticamente non esistevano attaccanti con caratteristiche simili, i magiari avevano incominciato a far arretrare il centravanti fino a farlo diventare un centrocampista aggiunto, inducendo per contro i due interni offensivi a spingersi in avanti per creare un fronte d'attacco a quattro assai più dinamico.
Dal punto di vista dello schieramento in campo, una soluzione del genere equivaleva a invertire la «W» del WM, che di fatto diventava un «MM». Ma l'arretramento del centravanti fin quasi a metà campo dava luogo ad urnfflemma pressoché irresolubile per il centrale difensivo avversario, perché questi, inseguendolo, avrebbe lasciato Un buco in mezzo ai due terzini, ma lasciandolo libero dalla marcatura gli avrebbe consentito di giocare indisturbato e dettare la giocata ai compagni. Se ne accorse lo stopper inglese Harry Johnston, quando si trovò a marcare Nandor Hidegkuti in occasione del famoso incontro tra Inghilterra e Ungheria a Wembley, il 25 novembre 1953: partendo dalla metà campo, il falso nueve magiaro segnò infatti una tripletta e ispirò le marcature di Puskas e Boszik, nella peggiore disfatta interna (3-6) che il calcio inglese abbia mai annoverato nella sua lunga storia.
Se appena si pensa a quanto il calcio ungherese dovesse agli insegnamenti del più grande dei maestri di calcio scozzese, Jimmy Hogan, non è difficile comprendere come un simile modo di interpretare il ruolo del centravanti fosse affatto coerente con la piattaforma evolutiva del calcio spagnolo. Sarebbe stato però un argentino a mostrarlo più di ogni altro. Nessuno come Alfredo Di Stefano (centravanti del Real Madrid
dal 1953 al 1964) fu infatti in grado di capitalizzare l'insegnamento principale deWAranycsapat, la «squadra d'oro» ungherese: giocando assai arretrato, dietro le ali, e costruendo la sua azione partendo in una posizione compresa fra centrocampo e attacco, Di Stefano segnò valanghe di gol e fu tra i principali artefici - insieme a Puskas, Kopa e Gento - della straordinaria sequenza di vittorie del Real nella neonata Coppa dei campioni. (È a lui che bisogna guardare per comprendere i movimenti di Leo Messi: chi lo paragona a Pelé o Maradona sbaglia clamorosamente il riferimento storigo.)
O ancora, consideriamo la perfetta fase difensiva che la Roja ha esibito per tutto il torneo, chiuso con un solo
gol al passivo. Siamo qui al cospetto di una tecnica collettiva di riconquista del pallone che in Spagna arriva nel 1971, insieme all'olandese Rinus Michels, già allenatore dell'Ajax , e futuro coach dei tulipani ai i Mondiali-del '70.'idea è che bisogna portare il pressing sul portatore di palla avversario con almeno tre
giocatori, in modo da indurlo i frettolosamente allo scarico, e 1rinnovare il medesimo attacco combinato sui ricevitori successivi: più frettolosi sono i passaggi, più i aumenta la possibilità di errore e, i specularmente, di riconquistar palla.
Ma affinché un pressing del genere , risulti efficace, bisogna ridurre lo i spazio entro cui gli avversari possono
muoversi, il che a sua volta richiede che la distanza fra i reparti si , mantenga quanto più corta possibile, i in modo da limitare la corsa di ciascun giocatore a non più di dieci metri di campo.
L'effetto combinato di questa dinamica collettiva consiste nella chiusura delle linee di passaggio agli avversari, nonostante in ogni singola azione di pressing almeno due di loro risultino potenzialmente liberi da marcatura. Se ad esempio il pressing viene portato a metà campo dai centrocampisti centrali, gli attaccanti retrocedono verso la mediana, in modo da inibire al portatore di palla lo scarico all'indietro, mentre contemporaneamente i difensori salgono a posizionarsi sulla verticale di un possibile scarico in avanti, collocando con ciò stesso in
fuorigioco gli attaccanti avversari e rendendosi uno actu disponibili al raddoppio e alla triplicazione della
marcatura.
Sbaglierebbe chi pensasse ad una peculiarità esclusiva del Barca di Guardiola: basti dire che con i blaugrana selezionati da Del Bosque si sono integrati alla perfezione i calciatori del Real Madrid (Arbeloa, i Sergio Ramos e Xabi Alonso), del Valencia (Jordi Alba) e perfino espatriati in Premier League (David i Silva, Torres, Mata). Il vero è che imovimenti del genere costituiscono ormai un patrimonio comune di molti calciatori spagnoli, se non altro i perché l'ibridazione olandese non ha i riguardato soltanto il Barcellona di 1
Gruijff, Van Gaal e Rijkard: anche senza considerare la fugace apparizione di Guus Hiddink, fu infatti un olandese, Leo Beenhakker, a guidare il Real Madrid per ben quattro stagioni fra 0 1986 e il 1992, conquistando tre campionati, una Coppa del Re e una Supercoppa.
Queste considerazioni sarebberogià sufficienti per intendere quale ricchezza strutturale si celi nel «modello spagnolo» e farsi una ragione dell'impressionante collezione di successi messi a segno dagli iberici negli ultimi quattro anni: due campionati europei e un campionato del mondo, a bui vanno logicamente sommate due Champions League e due coppe del mondo per club vinte dal Barcellona e due Europe, League e due i
Supercoppe europee vinte dall'Atletico Madrid. Come spiegare allora gli spericolati pronostici pro-azzurri di molti influenti commentatori sportivi, nell'imminenza della finale dell'Europeo? E come dar conto di certi inveleniti commenti del giorno dopo, che stigmatizzavano il fatto che 1 avesse vinto la squadra della nazione
' calcisticamente più indebitata? , L'impressione, nell'un caso come i nell'altro, è che si tratti dell'ennesima
i conferma dell'incapacità della nostra cultura calcistica (e non solo) di affrancarsi da quell'individualismo
i metodologico che, dopo essersi i affermato nella teoria economica neoclassica, è dilagato fino a colonizzare le più disparate branche i della conoscenza. E che proprio sulla questione del «debito» mostra tutte le sue insufficienze costitutive. 
In effetti, che la Spagna sia una nazione calcisticamente indebitata è i verissimo: i club della Liga devono al
fisco spagnolo circa 750 milioni di euro, Real Madrid e Barcellona hanno esposizioni bancarie per circa
600 milioni a testa e se si somma il loro debito con quello del Valencia, deU'Athletic Bilbao e dell'Atletico
i Madrid si arriva all'astronomica cifra di due miliardi di euro. Ma non è meno vero che, senza questa  capacità di spesa, il calcio spagnolo non avrebbe potuto continuare ad assicurarsi le prestazioni di coloro
che ne sono diventati alfieri, a cominciare da Xavi e Iniesta: nel lungo periodo, infatti, non c'è migliore indicatore delle loro eccelse qualità dei loro elevatissimi stipendi.
E senza la possibilità di trattenere i migliori talenti nazionali, di farne affluire degli altri dall'estero e di implementare per loro tramite le complesse metodiche di gioco racchiuse nelsuo-codice genetico^a
Spagna non sarebbe mai potuta assurgere al rango di «prima scuola nazionale post-globalizzazione», né i
club spagnoli sarebbero riusciti ad occupare cinque degli otto posti disponibili nelle ultime semifinali di
Champions e Europe League.
Si dovrebbe aggiungere che l'errore, semmai, sta nel supporre che una squadra di calcio possa essere
gestita come un'impresa capitalistica e al contempo essere vincente, ma non c'è spazio per dirne qui. Vale
invece la pena di aggiungere che c'è un'altra e più pregnante accezione del concetto di «debito» che può
ritenersi consustanziale al «modello spagnolo». In effetti, vedendo giocare la Roja, si sperimenta talvolta una
sorta di dilemma cognitivo: la palla circola da un calciatore all'altro attraverso passaggi singolarmente individuabili, ma tutto il comportamento della squadra sembra determinato da un «campo generale» di attività, senza alcuno i specifico riferimento a questo o a quel calciatore. In certi passaggi no-look di Xavi o Silva sembra persino di avere a che fare con movimenti che si susseguono l'uno all'altro pur in assenza di specifici canali di comunicazione, quasi che i singoli fossero sintonizzati su una fluttuazione collettiva e danzassero» al ritmo dettato da quest'ultima. Non , è un caso che, quando si voglia i rappresentare in un diagramma il flusso della palla durante una partita della nazionale spagnola, il risultato è un grafo che ricorda il fittissimo reticolo di un cristallo: non c'è nulla di meglio per comprendere che i parametri che determinano
l'ordinamento dei calciatori al suo interno dipendono dal modo in cui essi sono organizzati, cioè dalla dinamica che regola le loro interazioni.
È chiaro che un'organizzazione del genere vincola la libertà di ciascun giocatore di muoversi a proprio piacimento: ogni movimento del singolo deve infatti tener conto della posizione del compagno, dell'avversario e della palla. Ma è proprio la consapevolezza di questo vincolo che consente ai calciatori spagnoli di scansare il rischio di considerare come proprio «merito individuale» ciò che è invece prodotto di una dinamica collettiva. È come se quel modo di giocare obbligasse ciascuno a esperire continuamente il proprio «debito» nei confronti del resto della squadra: un debito, beninteso, che non può i essere in alcun modo estinto, ma può i essere solo amministrato nella forma di operae pei il «bene comune».. 
Il pensiero corre qui ad uno schema logico di matrice religiosa (si i pensi alla struttura affine del dono della Grazia), né ci sarebbe da stupirsene, trattandosi della, cattolicissima Spagna. Ma paradossalmente è proprio uno schema del genere che può permettere di concepire l'organizzazione del gioco nella forma di un potere «obbligante» ancorché non estrinsecamente «costrittivo», al quale i singoli sono assoggettati proprio in quanto dotati di libero arbitrio e dunque potenzialmente in grado di distruggerlo. Qualcosa che la nostra
cultura postmoderna, abituata a pensare solo in termini di «individualità» e mai di «sistema», e Dal passing game britannico al falso nueve ungherese al pressing olandese. 
C'è un patchwork di principi e sistemi di gioco alla base della prima scuola nazionale post globalizzazione
incline piuttosto a considerare il «debito» come l'asservimento conseguente ad una colpa [à la Nietzsche, per intenderci), non è più capace di fare. E che spiega finalmente come mai il gioco della Spagna venga largamente considerato come frutto di specifiche«singolarità eccezionali», dunque impossibilitato a «fare epoca»: un po' come accadde a suo tempo per l'Ungheria di Puskas o l'Olanda di Cruijff, squadre considerate eccelse soprattutto per i talenti individuali che vi giocavano e proprio per ciò non riproducibili.
Se dovessimo dirla nel linguaggio della fisica moderna, potremmo dire che l'atteggiamento italico di fronte
al gioco della Roja ricorda quello di chi, trovandosi ad attraversare una stanza sovraffollata e in cui ci si
muove a fatica, pensasse che lo sforzo del movimento deriva da una zavorra che qualcun altro, a sua
insaputa, gli ha messo sulle spalle: nient'altro che un problema individuale. Adesso però sappiamo che ciò che individualmente pare una zavorra è in realtà l'effetto di un campo di forze, sta qui il senso ultimo
della scoperta della bosone di Higgs, la «particella di Dio». Sarebbe il caso, allora, di adeguare le nostre forme di pensiero alla complessità del reale, piuttosto che continuare a tentare sterilmente d'ingabbiare quest'ultimo nelle nostre «semplici» quanto sbagliate idee. Tanto più che nel calcio è stata già scoperta da tempo la «particella» che nel campo agisce da schermo e conferisce massa a tutte le altre: è Xavi.

venerdì 7 settembre 2012

RIFUGIATI FOOTBALL CLUB

Ho appena concluso di leggere un libro grandioso, che narra di una realtà grandiosa e che vede il gioco del calcio protagonista.


Rifugiati Football Club
Autore St. John Warren
Editore Neri Pozza  (collana Bloom)

Se qualcuno fosse interessato a leggerlo me lo faccia sapere.
Sarò ben felice di prestarlo.

Descrizione
Clarkston, Goòrgia, era una tipica cittadina del Sud fino a quando non è stata designata nel 1990 come centro di accoglienza per i rifugiati, diventando la prima dimora americana per innumerevoli famiglie in fuga dalle zone di guerra di tutto il mondo. Improvvisamente le sue strade si sono riempite di donne che indossano il velo, ovunque si è diffuso il profumo del curry e del cumino, e ragazzi di ogni colore hanno iniziato a giocare a calcio in qualunque spazio disponibile. La città è diventata anche la casa della carismatica Luma Mufleh, una donna giordana che ha studiato negli Stati Uniti e che ha fondato una squadra di calcio composta dai ragazzi di Clarkston. E quei ragazzi hanno trovato un nome per la loro impresa: i Fugees, i Rifugiati. L'incredibile storia dei Fugees inizia il giorno in cui Luma vede qualcosa di inaspettato: un gruppo di ragazzi sopravvissuti alle guerre, alla violenza, alla morte di fratelli e genitori, sta giocando a calcio con una passione e una grazia che sembrano annullare qualsiasi orrore. Basta un attimo e Luma comprende il suo destino. Un pomeriggio del giugno 2004 gli aspiranti calciatori accorrono entusiasti e increduli al primo provino dei Rifugiati e Luma è pronta a scoprire ed esaltare ciò che hanno davvero in comune. "Rifugiati Football Club" segue una grande stagione dei Fugees e della loro allenatrice.

sabato 1 settembre 2012

Viaggio agosto 2012: le foto

Opio Aloysius, nostro futuro socio e Italo Nessi o con il mini poster di Kiprotich, ugandese vincitore della maratona olimpica.