domenica 5 dicembre 2010

La dittatura dello sport

Tom de Lisle, Intelligent Life, Gran Bretagna.

Fino agli anni sessanta lo sport era poco più di un hobby. Oggi alimenta una macchina da 120 miliardi di dollari e condiziona la vita di milioni di persone in tutto il mondo.  Di chi è la colpa?


Se la risonanza degli eventi sportivi sui mezzi di comunicazione è straordinaria, altrettanto si può dire della loro presenza ‘fisica’. I mondiali di Germania erano ovunque: sui cartelloni pubblicitari, sulle lattine e sulle confezioni di cereali, davanti ai garage delle case e su milioni di automobili, nelle vetrine delle farmacie e, ovviamente, in tutti i Mc Donald’s (“Vuoi i biglietti della finale? Vincili acquistando un menù grande a tua scelta”). Bobby Moore, il capitano della nazionale inglese del 1966, morto nel 1993, era risuscitato sulle confezioni del KitKat. Il suo compagnao di squadra Geoff Hurst, che nel frattempo è diventato sir Geoff, era stato nominato direttore della divisione calcio di Mc Donald’s e scriveva una rubrica di calcio su due quotidiani nazionali. I ragazzi del 1966 erano più famosi nel 2006 che nel 1966.

I Mondiali del 2006 hanno generato migliaia di ore di programmazione tv, innumerevoli interventi telefonici in radio e centinaia di commenti su forum e blog. Ma questa tendenza non riguarda solo il calcio: qualcosa di simile era già successo durante i Mondiali di rugby del 2003 e gli Ashes di cricket del 2005. E non si limita alla Gran Bretagna: ogni edizione dei Mondiali di calcio o delle Olimpiadi ha un seguito maggiore in tutto il mondo rispetto a quella precedente. Anche negli Stati Uniti, dove il tifo è più pacato e le regole sportive sono molto più rigide, le partite hanno un seguito sempre maggiore. Circa 116 milioni di americani hanno seguito in tv il SuperBowl del 2010: è stato il programma più visto della storia degli Stati Uniti. Tutto questo porta a chiedersi: quando e perché lo sport è diventato così importante?
Secondo Joe Maguire, autore di Power and global sport e docente di sociologia dello sport all’Università di Loughborough, in Gran Bretagna, il motivo si può riassumere in una frase: “L’impero britannico”.
Maguire individua cinque tappe fondamentali nell’evoluzione dello sport:

1- Tra il seicento e il settecento, “i principali passatempi inglesi – il cricket, la caccia alla volpe, le corse dei cavalli e la boxe – si affermavano come sport moderni”, dotati di regole specifiche. Ma tra queste discipline solo una, il cricket, ammetteva l’uso di una palla.

2- Negli anni sessanta e settanta dell’ottocento “il calcio, il tennis, il rugby e l’atletica leggera assunsero forme moderne, e lo sport incominciò a diffondersi nelle scuole”.
3- Nei primi anni del novecento, “lo sport moderno si è diffuso rapidamente in tutto il mondo seguendo le strade tracciate dall’impero britannico”.
4- Tra il 1920 e 1970 sono scesi in campo gli Stati Uniti.
5- Negli ultimi quarantacinque anni abbiamo assistito alla nascita dello “sport mediatico”.

È difficile trovare qualcosa di meno britannico del calcio brasiliano, che è agile, ricco di talenti e di enorme successo, con un record di cinque mondiali conquistati. Eppure, anche in questo caso il merito è della Gran Bretagna. “La crescita dell’importanza del calcio in America Latina è avvenuto lungo tre direttrici”, spiega Maguire. “Grazie ai marinai della marina militare britannica, ai commercianti e ai gruppi religiosi cristiani”. Le regioni dove lo sport è cresciuto più rapidamente nel corso dell’ottocento sono quelle entrate in contatto con la cultura britannica. Le Olimpiadi hanno fatto un salto di qualità dopo il 1896 grazie alle idee di Pierre De Coubertin, che qualche anno prima era stato in Gran Bretagna. Lo storico francese visitò le scuole private del paese e si recò a Much Wenlock, un paesino di campagna dello Shropshire, dove da quarant’anni un medico della zona organizzava “gli antichi giochi olimpici”. In questo modo De Coubertin poté ammirare lo spirito di fair play e di cristianesimo vigoroso presenti nel paese. “Si può ben dire” – scrisse De Coubertin – “che Wenlock abbia conservato e porti avanti le autentiche tradizioni olimpiche”.

Finita la seconda guerra mondiale, gli unici imperi rimasti erano quello statunitense, informale ma persuasivo, e quello sovietico, formale e invasivo. Il comunismo ha contribuito al processo di crescita dello sport trasformando l’atletica in un processo industriale, dopando sistematicamente i corridori, canottieri e pesisti per fare incetta di medaglie. E questo ha spinto i governi occidentali ad investire sempre più nello sport. A differenza della Gran Bretagna, gli Stati Uniti non sono riusciti a coinvolgere il resto del mondo nei loro sport di squadra, ma hanno colonizzato discipline individuali come il tennis e il golf, tanto che oggi la maggior parte dei tornei di questi due sport si tiene negli Stati Uniti. E nel 1960 il giovane avvocato americano Mark McCormack ha inventato la professione dell’agente sportivo, un ruolo che ha trasformato le star sportive in strumenti di marketing per le multinazionali.
Con la caduta del comunismo, il capitalismo ha assunto il controllo. Oggi il potere è nelle mani di chi gestisce il commercio globale, e anche se la nazionale di calcio non è ancora ai massimi livelli, a farla da padrone sono le grandi multinazionali americane. Nei campi da gioco dei Mondiali del 2006, il verde dell’erba era spesso incorniciato dal rosso della Coca Cola e di McDonald’s. In Germania esistono circa 1.200 fabbriche di birra, eppure per la sesta volta consecutiva, la birra ufficiale del campionato è stata la Budweiser, prodotta dalla Anheuser-Busch di Chicago..

Colpa della tv


Ma la teoria degli imperi non spiega la crescita esponenziale dello sport dal punto di vista economico. Per le Olimpiadi di Londra 1948, il costo dei diritti di trasmissione era di circa mille sterline, l’equivalente di 40mila sterline attuali (48mila euro). Nel 2012 la manifestazione tornerà nella capitale britannica, e i diritti tv (parte di un pacchetto che comprende anche le Olimpiadi invernali del 2010) sono stati ceduti per 2-miliardi-e-mezzo di sterline (3-miliardi-di-euro).
Non bisogna essere degli esperti per capire da dove sia arrivato il carburante per accendere questo motore: dalla tv. Per prima cosa, la maggior parte degli abitanti del mondo sviluppato hanno comprato un televisore, e questo ha permesso ai grandi eventi sportivi di entrare nelle nostre case; poi, con l’inizio dell’era spaziale, sono arrivati i satelliti, che hanno reso le immagini più vivaci e definite; successivamente, la liberazione delle frequenze ha fatto nascere centinai di nuovi canali e ha creato una concorrenza spietata per i diritti trasmissione. “Abbiamo comprato i diritti a lungo termine sui principali eventi sportivi nella maggior parte dei paesi”, aveva dichiarato Rupert Murdoch di fronte agli azionisti della News Corporation nel 1996. “Vogliamo usare lo sport come ariete per diffondere tutti i nostri programmi di pay-tv”. Missione compiuta.
E la macchina non sembra voler rallentare. Per trasmettere tutte le partite della FA Premier league (la serie A britannica nata nel 1992) Sky paga alla federazione calcistica inglese circa 367 milioni di sterline a stagione. Nel 1992 i diritti di trasmissione erano costati a Murdoch solo 38 milioni. Oggi la Bbc paga 57 milioni di sterline a stagione solo per le sintesi in differita delle partite. L’entità di queste somme ha prodotto conseguenze evidenti: i giocatori guadagnano di più e gli spettatori pagano di più.
Tuttavia, non è certo che tutto questo abbia contribuito alla diffusione dello sport. La tv via satellite è ancora poco diffusa. In Gran Bretagna solo un terzo delle famiglia ha un abbonamento Sky, e questo significa che nessuna partita della Premier league raggiunge un numero di persone pari a quell odi una diretta internazionale della Bbc che trasmette in chiaro. Quando nel 2006 le dirette del Test Cricket sono passate dal terrestre al satellitare, gli spettatori si sono ridotti di circa due terzi. Le aziende che offrono i programmi sul satellite promuovono lo sport con un accanimento tale da trasformare in evento anche una partita di campionato tra due squadre minori.
Inoltre sono riuscita a far in modo che il calcio, che un tempo era un appuntamento domenicale, diventasse un evento a ciclo continuo: tre partite ogni sabato a orari diversi,  due blocchi di partite ogni domenica e almeno una partita in quasi tutte le altre sere della settimana. Se sei un drogato di calcio, puoi farti dieci dosi alla settimana solo seguendo le squadre del tuo paese. Ma le reti satellitari comprano anche le partite dei campionati nazionali di altri paesi.
Se determinati fattori rimangono costanti – terrestre o satellitare, diretta o differita, feriali o festivi – i dati d’ascolto degli eventi sportivi sono sempre in evoluzione. L’esordio della nazionale ai Mondiali del 2006, contro il Paraguay, ha avuto un picco d’ascolto di 12,8 milioni di telespettatori solo in Gran Bretagna; nel 2002 i telespettatori durante la prima partita erano stati circa 12 milioni (e i dati non includono le migliaia di persone che hanno seguito le partite nei pub, nei club sportivi o in casa di parenti e amici).
 
La famiglia Dassler
 
Nel 1924, nella cittadina bavarese di Herzogenaurach, due fratelli misero su un’attività che nel tempo è diventata un’industria. Adolf Dassler era un calzolaio e un atleta dilettante, mentre suo fratello Rudolf faceva il commesso. La loro attività consisteva nel fabbricare calzature sportive utilizzando pelle e chiodi. Poi i due fratelli litigarono, e la loro società, la Gebrüder-Dassler, si divise, dando vita alla Adidas e alla Ruda, che poco dopo fu ribattezzata Puma. Entrambi i fratelli erano iscritti al partito nazista, e alla fine della guerra si accusarono a vicenda di aver cercato di vendere i propri prodotti alle forze alleate.
Adidas ha continuato a crescere a dismisura. Il suo ultimo fatturato è stato di 10 miliardi di euro, circa 25 volte quello del Real Madrid, la squadra di calcio più ricca del mondo. Ma l’azienda non è cresciuta solo dal punto di vista finanziario, ha anche acquistato potere. “È stato Horst Dassler a creare il marketing sportivo”, afferma Andrei Jannings, giornalista britannico, “Horst era un visionario: aveva capito l’importanza delle alleanze strategiche molto prima della Harward Business School”.
I fratelli Dassler erano stati i primi a far indossare gli indumenti fabbricati da loro alle stelle dello sport.
Lo sport è diventato un affare molto più grosso quando il sistema calcistico ha compreso il valore dei diritti tv. Per la loro vendita, la Fifa, l’organizzazione che regola il calcio in tutto il mondo, si è affidata ad una società di marketing svizzera, la Isl, di  proprietà di Horst Dassler. (La Isl è poi andata in bancarotta – strano ma vero – mentre un magistrato svizzero ha continuato ad indagare su presunte tangenti di Isl ad alcuni dirigenti Fifa. Il presidente della Fifa, Sepp Blatter, ha respinto le accuse).
Horst Dassler è morto nel 1987. da allora Adidas ha cambiato proprietà due volte, am il controllo che esercita sul calcio non è diminuito. L’azienda tedesca non è solo uno dei principali sponsor dei Mondiali e fornitore della nazionale tedesca. Nei Mondiali in Sudafrica le sue strisce, dal collo ai polsi, sono state sfoggiate dalle nazionali di dodici paesi, in barba alle regole secondo cui il logo dovrebbe limitarsi ad uno stemma sul petto. Zinedine Zidane era vestito Adidas quando ha colpito Marco Materazzi con una testata nella finale dei Mondiali del 2006, così come l’arbitro Elizondo che l’ha espulso. Il premio vinto da Zidane come miglior giocatore della manifestazione si chiama Pallone d’oro Adidas, e per le sue pubblicità durante i Mondiali, Adidas ha usato l’immagine del grande difensore tedesco Franz Beckenbauer, che era anche il presidente del comitato organizzativo dei Mondiali.

Finanza selvaggia
 
In passato i grandi capitali hanno avuto poco a che vedere con lo sport. Le squadre di calcio erano generalmente proprietà di imprenditori provenienti dal settore immobiliare o delle auto usate. Sulle maglie delle squadre non c’erano scritte, se non un logo discreto del produttore, e i marchi commerciali erano relegati al recinto intorno al campo.
Nel corso di una generazione è cambiato tutto. Lo stadio dell’Arsenal si chiama Emirates, dal nome della compagnia aerea che sponsorizza la squadra. Qualche anno fa il Manchester United ha firmato un accordo di sponsorizzazione quadriennale da 66 milioni i euro con la Aig, una grande società di assicurazioni statunitensi. Quando nel 2008 la Aig è fallita, lo United si è spostato sulla Aon, disposta a pagare 95 milioni per quattro anni. Anche le squadre nazionali hanno i loro fornitori ufficiali, e i tennisti e i piloti sono diventati cartelloni umani, circondati dai marchi. E Andrei Jennings ha una teoria a riguardo. “Quando guardiamo lo sport diventiamo vulnerabili. Torniamo bambini. È così che ci vuole il capitalismo. Antonio Gramsci diceva: ‘Come è possibile fare la rivoluzione se il nemico ha un avamposto nella nostra testa?’ È stato proprio lo sport a fornire quell’avamposto alle multinazionali”.
Non c’è dubbio che lo sport ci fa tornare bambini. Per tutta a durata della partita o del campionato, ai tifosi interessa solo il risultato. Lo sport ci proietta nell’imediatezza, riducendo i nostri sentimenti alla disperazione o all’euforia. Inoltre (o soprattutto) offre alle multinazionali una faccia sana e salutista. Il cibo e le bevande che imperversano durante i Mondiali o le Olimpiadi sono quelli meno salutari: Coca Cola, hamburger, pollo fritto. Le aziende che coltivano arance non hanno la minima possibilità di farsi conoscere in queste occasioni.
In un pomeriggio d’estate del 1981, Rupert Murdoch convocò nel suo ufficio Harry Evans. Mirdoch era il nuovo proprietario del Times, Evans il nuovo direttore. L’idea di Murdoch era molto semplice: pubblicare quattro pagine di sport tutti i giorni. Evans non ne voleva sapere. Sei mesi dopo rassegnò le dimissioni da direttore.
Oggi quattro pagine sportive su un quotidiano generalista sono considerate poche. Le sezioni sportive si sono gonfiate a dismisura, arrivando a includere rubriche “scritte” da sportivi e da ex-sportivi, grafici che illustrano tattiche di gioco, sezioni dedicate alle scommesse, il gossip e le recensioni di eventi sportivi trasmessi in tv.
“Nel 1987 la nostra redazione sportiva era composta da 38 persone. Nel 1995 erano diventate 67”, scrive Max Hastings direttore del Daily Telegraph. “Mi sforzavo di concedere al nostro caporedattore sportivo tutto quello che voleva, entro i limiti della ragione”.
Dalle Olimpiadi di Barcellona del 1992, il numero di atleti che partecipano ai giochi è di gran lunga superato dal numero dei giornalisti che ne raccontano le gesta. Una tendenza amplificata da internet, che offre ai tifosi la possibilità di “incontrarsi” dopo una partita, porta lo sport sul luogo di lavoro, fa circolare velocemente le notizie, fornisce una vetrina agli scommettitori e permette alle squadre di diffondere direttamente il loro punto di vista. Lo sport online gode di una popolarità immensa. Poi ci sono i social network e le applicazioni telefoniche (“vai dietro le quinte del ritiro dell’Inghilterra direttamente dal tuo iPhone”), di cui lo sport si è impossessato senza problemi.
Negli anni sessanta e settanta il cinema era un serbatoio costante di eroi a misura d’uomo: Paul Newman, Robert Redford, Sean Connery o Clint Eastwood. Negli anni ottanta sono arrivati gli uomini-cartone animato come Silvestre Stallone e Arnold Schwarzenegger e i simpatici duri come Harrison Ford e Bruce Willis. Poi è stato il turno dei bei ragazzi alla Brad Pitt e di altri eroi modesti come Tom Hanks e Denzel Washington. Con l’unica eccezione Gorge Clooney, i protagonisti maschili non si rivolgono mai ad un pubblico di adulti. Una transizione simile è avvenuta nella musica rock. Le superstar maschili sono attempate (Mick Jagger, Paul McCartney), coscienziose (Bono, Chris Marin), nevrotiche (Robbie Williams), minacciose (Eminem) o acqua e sapone (Justin Timberlake). L’ultimo “uomo della porta accanto” a diventare una superstar del rock è stato, probabilmente, Bruce Springsteen, trentacinque anni fa.
Questo vuoto è stato colmato dalle stelle dello sport, dal cestista Michael Jordan al campione di cricket Andrei Flintoff. Andy Warol, che non sapeva praticamente niente di sport, aveva previsto tutto trent’anni fa: “Le stelle dello sport di oggi sono i divi del cinema di ieri”. Il cantante e poeta Leonard Cohen ha detto una cosa simile nel 1988: “Negli anni sessanta la musica era la più importante forma di comunicazione. Oggi è lo sport. Negli stati Uniti i personaggi sportivi sono molto più accattivanti e interessanti, e le loro vite molto più pericolose, di quelle dei musicisti. Sono i nuovi eroi”.

Una società diversa
 
Senza i trasporti lo sport non sarebbe andato lontano. In Gran Bretagna lo sviluppo del sistema ferroviario, nell’ottocento, ha dato alle squadre la possibilità di giocare partite fuori dalla loro città, e questo ha spianato la strada alla nascita dei campionati. I tornei internazionali hanno preso piede più lentamente, perché le squadre dovevano spostarsi via mare. In occasione della prima Coppa del Mondo, nel 1930, le squadre europee arrivarono in Uruguay in nave. Oggi il tennis, il golf, il cricket e le corse automobilistiche sono allegri carrozzoni globali alimentati da carburanti per aerei.
Ancora più decisive, secondo Jeggings, sono state le riforme nel settore industriale. “Le battaglie dei sindacati hanno permesso di aumentare i salari e di ridurre le ore di lavoro degli operai, che hanno cominciato ad affollare gli stadi”.
In Gran Bretagna il calcio ha debuttato come uno sport amatoriale praticato dalle classi alte. Nei primi quattordici anni della Coppa d’Inghilterra gli Old Etonians, la squadra delgi ex studenti del prestigioso college di Eton, sono arrivati per otto volte in finale. Ai tempi della seconda guerra mondiale, il calcio era lo sport della classe operaia, mentre il ceto medio si sostava sul cricket e sul rugby.
Verso la fine degli anni ottanta il calcio inglese era in crisi, devastato dagli hooligans e dalle tragedie negli stadi. Come quella dell’Hillsborough, nel 1989, dove 96 persone sono morte dopo essere state schiacciate sui cancelli d’accesso. La conseguenza è stato il rapporto Taylor, che ha cancellato i posti in piedi sugli spalti e – grazie anche a milioni di Murdoch – ha spianato la strada affinché questo sport diventasse ancor più interclassista. Lo snobismo nei confronti del calcio aveva già cominciato a diminuire negli anni sessanta, quando i ragazzini del ceto medio, i cui padri guardavano il calcio con sufficienza, si sono entusiasmati per la vittoria della nazionale inglese ai Mondiali. Oggi quei ragazzi sono signori di mezz’età, e alcuni di loro occupano posizioni di prestigio nel mondo dei mezzi di informazione. Questo percorso è stato descritto da Nick Hornby in Febbre a 90’, che ha sdoganato la passione calcistica delle classi benestanti. Ma lo sport è stato toccato anche da altre tendenza sociali. Il razzismo, il sessismo, il nazionalismo e altre pessime inclinazioni degli appassionati di sport non sono ancora del tutto scomparse dalle gradinate. Dopo il trasferimento all’Emirates Stadium, l’Arsenal ha cominciato anche ad ospitare amichevoli internazionali. La prima è stata Brasile-Argentina. Una rara occasione per i tifosi dell’Arsenal di godersi una partita da una posizione di neutralità. Eppure, anche in quel caso i tifosi hanno intonato i soliti spiacevoli cori, come “Stand up if you hate Tottenham”. Gorge Orwell diceva che lo sport è una guerra in cui non si spara. Una guerra civile, spesso: Manchester contro Liverpool, Real Madrid contro Barcellona. Forse si tratta di una valvola di sfogo vitale. 
Forse lo sport è diventato l’ultimo rifugio di chi non ha accettato i cambiamenti
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