martedì 5 gennaio 2010

PALLONE SOLIDALE Gonzalez va in gol per i bimbi di Asunción

Fonte: Avvenire - 2 Gennaio 2010 - pag. 28 scritto da Massimiliano Castellani
Segnalato da Mimmo Arnaboldi


Il cuore grande di Julio Gonzalez lo conoscono be­ne i tifosi del Vicenza che hanno pianto per lui quan­do all’apice della sua carriera di bomber - argento olimpico ad Atene 2004 e già con la valigia pronta per i Mondiali di Germania 2006 - alla vigilia del Natale del 2005 dovette dire addio a tutti i sogni di gloria. In se­guito a un incidente stradale in cui restò miracolosa­mente vivo, gli venne amputato il braccio sinistro. Per i severissimi parametri Uefa voleva dire carriera fi­nita. Una partita chiusa, a soli 25 anni. Ma non si per­se d’animo, sorretto da un fede incrollabile che l’ave­va sostenuto nei giorni bui della sala di rianimazione insieme alla compagna di una vita, la moglie Maria Lourdes e ai suoi piccoli, Maria Paz e Fabrizio, ha ripreso la strada di casa, il Paraguay. Con il coraggio del guer­riero d’area di rigore che non si arrende mai è riu­scito anche a tornare in campo, giocando insieme al fratello Sergio, che fa il terzino, nella squadra che lo aveva lanciato, il Ta­cuary.


Poi la decisione di appendere le scarpe al chiodo. Ma la sua second life è tutt’altro che virtua­le: ora gioca al servizio dei bambini poveri e degli or­fani di Asunción. Nessu­na meraviglia per chi co­nosce l’uomo Gonzalez, appartenente a quella razza protetta di calciatori che quando erano al top nelle in­terviste ammoniva: «Si dà troppa importanza all’este­riorità, alle belle macchine e ai vestiti di lusso. Il miglior abito io penso che sia l’anima di un uomo». E quell’a­nima candida ora ha deciso di sfidare la miseria che do­mina in molti dei quartieri della capitale paraguayana. «Sono migliaia e aumentano ogni giorno di più quei bimbi che girano scalzi per le strade della città, vestiti al massimo con una canottiera logora e un paio di cal­zoncini. Ora qui è estate, ci sono quasi 40 gradi tutti i giorni e fa male al cuore vederli con i piedi bruciati dal­l’asfalto che vagano smarriti, senza un posto dove an­dare né un riparo dai tanti pericoli...».


Sono i bambini della favela di Cateura, la D iscarica dove ogni giorno vengono ammassate montagne di rifiuti in questa me­tropoli dimenticata del Sudamerica, popolata da oltre 2 milioni di persone. Come topi, bande di ragazzini scalano vette di im­mondizia alla ricerca di un rottame da rivendere al mercato nero o un pasto quotidiano per sé e per la pro­pria famiglia. «Sono immagini che non possono la­sciare indifferenti, specie a uno come me che ha avu­to la fortuna di nascere a un chilometro da questo “in­ferno”. Lì sono cresciuti due miei ex compagni di squa­dra del Tacuary che mi hanno raccontato la loro in­fanzia di bambini abbandonati in cui erano costretti a fare qualsiasi cosa per sopravvivere...». Bimbi che vi­vono in condizioni igieniche al limite. «Ho incontrato creature che non fanno una doccia da mesi, i capelli impastati dallo sporcizia con i vestiti ridotti a brandel­li. Sono piccoli angeli che rischiano di finire nelle ma­ni di aguzzini diabolici che li costringono a spacciare droga o a prostituirsi». Così, per evitargli un finale di partita drammatico l’ex bomber ha deciso di fare squa­dra con due associazioni che operano ad Asunción: l’ “Aldea Sos” (associazione internazionale presente in 120 Paesi) e la “Scuola Calcio Siembra” che si trova pro­prio nel cuore di Cateura.


Un piano di salvataggio so­ciale e di rieducazione nel quale è entrato anche l’In- ter Campus che puntando sulla presenza di Gonzalez ha aderito al progetto che al momento si occupa di 250 ragazzi tra gli 8 e i 14 anni. «L’Inter ci fornisce tutto il materiale sportivo (maglie, scarpe, tute, palloni) noi ai ragazzi chiediamo prima di tutto di tornare sui banchi di scuola. Altrimenti: niente partite al pomeriggio. Il calcio lo utilizziamo come motivazione per strapparli dalla strada e reinserirli in un contesto sano in cui al­la base ci deve essere un corso regolare di studi che gli garantisca poi l’ingresso nel mondo del lavoro». Pane, libri e pallone. È il tridente motivazionale per combat­tere l’ignoranza, riprendersi in mano la propria vita e inseguire una sfera di cuoio che è il sogno di un futu­ro meno duro. «Vorrei fare di più, portare altre centinaia di quei bim­bi nei nostri centri, ma non è facile... Quello che pos­so fare ora è andare al campo tre volte alla settimana per allenarli. Loro si divertono e mi ascoltano perché sanno che sono stato un professionista che ce l’ha fat­ta a sfondare, ma senza mai tralasciare l’istruzione. Non mi costa nulla spendere un po’ del mio tempo per questi ragazzi, anzi è qualcosa che mi arricchisce co­me uomo e come papà di due bambini che hanno la loro stessa età».

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