giovedì 21 febbraio 2008

Non mollare

Care e cari,
lo so che questa mattina vi siete svegliati male. Qualcuno di noi ha pure fatto finta di niente, nel tentativo di non acuire il dolore.
Tuttavia sappiamo anche che i conti si fanno alla fine, la speranza è l'ultima a morire e il gatto non lo si può nominare finché non sta nel sacco (G.T.).
Insomma, coraggio!
Per incrementare la speranza vi rimando ad una lettura edificante (quando si dice la Buona stampa).
Forse oggi non ve la sentite, ma domani o dopo o dopo leggete quanto segue.
Ora e sempre, forza Inter.
Mimmo Arnaboldi


I santi marciano su Anfield
Ottavi di finale di Champions league, l'Inter torna nella tana del Liverpool 43 anni dopo una sfida entrata nella leggenda
Matteo Lunardini


Una squadra di calcio è un susseguirsi regolare di partite che il tifoso sente sulla pelle come tanti anelli di una catena. Alcuni anelli di questa catena fanno male, sono spine conficcate nella carne. Altri invece, evocando ricordi indelebili, sono simbolo di storia e identità. Per questo, quando la Uefa ha estratto l'abbinamento degli ottavi di Champions League contro il Liverpool (questa sera in campo ad Anfield Road), molti tifosi dell'Inter hanno avuto un deja vu. Uno degli anelli più scintillanti della catena nerazzurra reca una data, 12 maggio 1965, e tre firme: Corso, Peirò, Facchetti. È una semifinale di Coppa Campioni tanto celebre da venire considerata uno spartiacque generazionale: chi ha avuto la fortuna di essere uno dei novantamila presenti all'incontro ne ha per sempre tramandato le gesta; chi invece è nato dopo, per tutta la vita si è sentito dire: Moratti-Herrera, è questa l'Inter vera.
Era il biennio 64-66. La squadra del petroliere Angelo Moratti stava scrivendo una storia che l'avrebbe portata a divenire «la Grande Inter». La sua formazione, immutata per dieci/undicesimi nell'arco di anni, era conosciuta da tutti in Italia, tanto che Nanni Moretti, in Ecce Bombo, l'avrebbe fatta recitare ai maturandi al posto dei presidenti della Repubblica. Artefice della magia, l'allenatore Helenio Herrera, personaggio innovativo e tracotante, istrionico e neologista, amato e odiato in ugual misura. Durante la partita di andata, aveva dato sfoggio della sua pazzia. Recatosi a Liverpool con lo stesso piglio con cui D'annunzio era andato a Fiume, ad Anfield aveva perso 3 a 1 e come il vate era tornato in patria cornuto e mazziato. Il portiere Sarti aveva compiuto miracoli e alla fine gli altoparlanti dello stadio avevano diffuso le note di When The Saints Go Marchin' In in segno di scherno. Il presidente dell'Inter di oggi Massimo Moratti, che allora ventenne fu inviato dal padre a Liverpool, ha ricordato come un incubo quell'esperienza: «Ci spaventammo perché la squadra non aveva assolutamente risposto sul campo. Era come bloccata, impaurita. Il loro pubblico era stato incredibile. Sugli spalti cantavano delle canzoni contro il fascismo, come se l'Italia fosse appena uscita da quel periodo».
Davvero altri tempi, quelli. La Cina faceva esplodere l'atomica mettendo in scacco il sistema bipolare. In Italia Aldo Moro presiedeva un governo sostenuto da Dc, Psi, Psdi e Pri. E Milano, da sempre laboratorio politico non solo del Belpaese, veleggiava sull'onda lunga di un boom economico che si sarebbe presto infranto sugli scogli degli anni Settanta. A palazzo Marino il centrosinistra cominciava a mostrare le sue contraddizioni: il sindaco Bucalossi aveva vacillato sul prezzo del biglietto del tram, aumentato, dopo una lunga notte di consiglio, a settanta lire. Il prezzo della partita, invece, oscillava tra le millecinquecento e le tremila. Ma Herrera - che dava molta importanza al pubblico, tanto da aver per primo introdotto in Italia il tifo organizzato - aveva solleticato il protagonismo dei tifosi in una sorta di chiamata alle armi. I cori di Anfield erano stati letti in chiave anti-italiana e il sold out era stato possibile anche grazie a molti non interisti. In città si sentiva il fremito storico della grande impresa. E impresa fu: l'Inter ribaltò il risultato (3-0) e si qualificò per la finale.
Nel racconto dei presenti il protagonista dell'incontro fu uno solo: la folla. In 90mila avevano concorso all'impresa. «Piedigrotta a Milano» scrisse Gino Palumbo sul Corriere della Sera: «Tutti i suoi tifosi si sono mobilitati sugli spalti. Le bandiere e gli striscioni stavolta non bastano. Non bastano le trombe, né le sirene. Ci vuole Piedigrotta: i fuochi d'artificio, le granate, le girandole, Milano si ispira a Napoli, la supera. È il Maracanà». E la Gazzetta dello Sport, che titolava «Al Liverpool 3 reti dell'Inter e della folla», scriveva, a firma di Emilio Violanti «San Siro, al 90', tra il Vietnam e il Carnevale di Rio: mortaretti, trombe, campane, sirene, uno stadio in preda alla follia pura». Uguale registro sulla stampa inglese, che puntò il dito «sull'azione corale del pubblico», montato ad arte e artificialmente preparato, diverso dal pubblico britannico, più spontaneista e anarchico. Scrisse il Daily Express: «Per cacofonia collettiva e micidiale furore di vittoria, gli strepiti, le bombe, le trombe e i clacson di questi novantamila non hanno nulla da invidiare alla conclamata inortodossia sonora di Anfield». Mentre il corrispondente del Daily Mirror - costretto a scrivere nel frastuono dei petardi - titolerà, in italiano: «Nell'inferno di Dante».
Pochi anni dopo così gli autori descrissero i tre gol. All'8' ci fu la famosa foglia morta di Corso: «Il loro portiere non poteva immaginare uno scherzo del genere. Si aspettava una bomba, povero cocco, non mi conosceva. Ma non esagero se dico che quella partita metà la vinse la folla. Il Liverpool aveva di fronte uno stadio intero». Un minuto dopo, il gol satanico - definizione del Times - di Peirò: «L'azione era scaturita da un tiro da lontano, che il portiere era riuscito a intercettare mentre io ero caduto. Da terra seguivo le mosse del portiere: lo vedevo far rimbalzare la palla. Improvvisamente ebbi la sensazione di potergliela soffiare: mi alzai di scatto e lo raggiunsi praticamente in un sol balzo. Appunto su un rimbalzo riuscii a rubargli la sfera che scaraventai in rete. Non si era mai vista una cosa del genere: ho ancora nelle orecchie il clamore della folla». Infine, al 62', il gol perfetto di Facchetti: «Ci fu uno scambio nella nostra metà campo tra Bedin e Corso. Io partii come un razzo. Corso mi allungò la palla. La mia volata era accompagnata dal boato della folla. Capii subito che avrei segnato. Mi avventai sul pallone e arrivato all'altezza del limite dell'area feci partire una fucilata di collo destro. Il portiere non vide nemmeno la palla». Giacinto Facchetti aveva abbandonato la sua posizione di terzino sinistro puntando il centro dell'area avversaria, mentre i compagni, nel mezzo del campo, avevano disegnato un arabesco di passaggi che si sarebbe concretizzato con l'assist proprio per lui. Tutti i novantamila tifosi e i dieci compagni sapevano che lui, il grattacielo di Treviglio, da lombardo disciplinato e di poche parole qual era, non avrebbe fallito l'appuntamento. E non perché aveva da battere un portiere, segnare un gol o scrivere per sempre la storia della Beneamata. Ma perché lui era così: sincero, onesto, affidabile.
Quello che successe a fine partita è leggenda. I 22 protagonisti tornarono negli spogliatoi nel tripudio collettivo, mentre gli altoparlanti di San Siro diffondevano un disco che Mazzola aveva consegnato personalmente allo speaker dello stadio (e che non avrebbe mai più rivisto indietro): Louis Armstrong cantava When The Saints Go Marchin' In. Così la vendetta fu servita alla perfida Albione. La retorica dei giornali e del mago avevano sortito l'effetto sperato. Per la prima volta la massa era stata elevata a protagonista al pari di giocatori e società. Da quel giorno il gioco herreriano della «chiamata alle armi» sarebbe stato replicato molte volte, finché, arrivati a ieri, i costi di quella euforia non sarebbero diventati troppo alti. Non solo per il buon nome del calcio italiano, ma anche per la quiete pubblica borghese. Allora sarebbero arrivate le leggi speciali.

(il manifesto, 19 febbraio 2008, pagina 16)

Nessun commento: