martedì 21 luglio 2009

Il presidente del Centro Sportivo Italiano: più etica nel mondo del calcio

LA NAZIONALE DEL CSI di Edio Costantini

Troppi soldi spesi per i giocatori in un Paese che tira la cinghia. Bisogna cambiare, magari tornare all’antico. All’età dell’oro dei grandi campioni nati “all’oratorio”.

Ha preso il via Euro 2008, un evento sportivo spettacolare, ma anche un colossale affare economico. In fondo, ogni giocatore rappresenta una piccola impresa, con i suoi diritti di immagine individuali, i suoi sponsor personali, le sue assicurazioni su gambe e stinchi e, soprattutto, il suo valore di cartellino. È questo il volto di molto sport moderno, quello di élite, che ormai ha ben poco in comune con quello sognato da De Coubertin. Del resto, la separazione tra il calcio e il mondo reale si fa sempre più ampia anche in Italia. Le statistiche nazionali parlano di salari più bassi d’Europa, di un crescente numero di famiglie sotto la soglia di povertà, ma al nostro calcio non interessa. È già partito il calciomercato e le cifre che girano sono impressionanti: milioni di euro per i giovani, decine di milioni per i campioni. L’Inter del petroliere Massimo Moratti ha ingaggiato l’allenatore portoghese Mourinho per la modica cifra di 18 milioni lordi annui che, per i tre anni sottoscritti, diventano 54. Non basta, poiché per licenziare il precedente allenatore, Mancini, occorrerà saldarne le spettanze, che sembra ammontino a circa 30 milioni, non si sa se netti o lordi. Ne viene fuori un totale che basterebbe a tirare fuori dalla povertà un piccolo Paese del Terzo Mondo. E che corrisponde più o meno a quanto nella scorsa legislatura è stato messo a disposizione dello sport di cittadinanza, dopo molte discussioni e resistenze, per il triennio 2008-2010. Se l’Inter spende, gli altri club non stanno a guardare. Eccezione? Follia? No, il club nerazzurro è la punta di un iceberg al di sotto della quale si collocano le altre società con cifre a scalare. Peccato che, alla sua base, l’iceberg galleggi in un mare di debiti accumulati da chi non può reggere il mercato. Una buona parte del calcio professionistico di oggi si presenta come una sconcertante “metafora del tradimento educativo”, in cui si riproducono rabbia, nausea e nostalgia dell’età dell’oro, quando il calcio rappresentava un modello educativo per milioni di ragazzi. Oggi, sul teatro mediatico compaiono figure grigie, diffuse complicità perpetrate in un “sistema” senza regole, dove l’impunità garantisce convenienze, connivenze e ricatti. C’è qualcosa di incomprensibile in certi atteggiamenti spreconi dei presidenti. Industriali attenti ai bilanci aziendali, misurati nell’erogare stipendi a impiegati e operai, sensibili spesso alle opere di bene, sembrano perdere la testa quando si tratta di primeggiare nel mondo del pallone. Fenomeno nuovo? Niente affatto, se ricordiamo che alcuni decenni fa l’allora presidente del Coni, Giulio Onesti, stigmatizzava le folli spese calcistiche di certi industriali etichettandoli pubblicamente come “ricchi scemi”. Altri tempi: i vertici sportivi di allora, padroni di un ricchissimo Totocalcio che assicurava l’indipendenza politica e finanziaria di tutto lo sport, potevano alzare la voce, sia pure inutilmente. Oggi non si può, perché l’industria la fa da padrone su tutto il sistema sportivo. Tace il governo dello sport e tacciono i media, che sulla corsa all’ingaggio più alto concretizzano titoli a nove colonne e aumentano le tirature. Invece, ce ne sarebbe abbastanza per montare più di qualche inchiesta, di quelle che si dedicano agli scandali finanziari di questa Italia in braghe di tela, almeno per chiedersi quanto sia etico tutto questo al cospetto delle sofferenze del Paese. Ma il calcio sembra godere di una sorta di franchigia critica, che neanche scandali e scandaletti riescono a scalfire, se non superficialmente. È evidente che non c’è nulla di etico in questo modo di spendere i milioni. D’accordo, il calcio è industria e spettacolo, ma industria o no i conti con l’etica dovrebbe farli. Proprio per questo un Paese civile come l’Italia, che è portatore e testimone di una civiltà assolutamente invidiabile, anche sotto il profilo cristiano, non può accettare fatalisticamente una “dequalificazione” così macroscopica del mondo calcistico, che fa parte integrante dell’attuale cultura italiana. I presidenti dei grandi club dovrebbero fare mente locale e riflettere molto. Nessuno vuole demonizzare loro e il loro sport-spettacolo, che ha comunque una sua funzione sociale, visto che resta un fenomeno che appassiona gran parte del nostro Paese. L’etica dello sport non è, come a molti piace credere, solo una questione di fair-play in campo, di stringersi la mano a fine partita. È, o dovrebbe essere, anche interrogarsi sulla giustezza del contributo educativo e sociale che si fornisce alla collettività attraverso la propria condotta. In un Paese come il nostro, in cui non si riesce ad affermare il dovere di una politica pubblica che promuova la pratica sportiva giovanile ed educativa, delegandola all’associazionismo di volontariato, una riflessione del genere sarebbe davvero opportuna.


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