mercoledì 7 gennaio 2009

Un Massimo da sogno

Fonte: il Manifesto

di Luigi Cavallaro

Renzo Casali racconta l'interista Moratti, il più «progressista» dei presidenti di calcio
Di Massimo Moratti, presidente dell'Inter dal 1995, si sa che è figlio di Angelo Moratti, leggendario presidente della «Grande Inter» degli anni '60. Che è alla guida dell'importante società petrolifera di famiglia, la Saras. Che veste di una sobria e raffinata eleganza, fatta di cachemire, Church's e morbidi cappotti cammello. Che fuma ingenti quantitativi di Marlboro. Che ha speso nei tredici anni della sua presidenza cifre ragguardevoli per metter su una squadra che tornasse a vincere, raccogliendo però assai meno di quel che sperava - anzi, fino a tre anni fa, praticamente nulla, con grande scorno per noi interisti.
Si sa anche che coltiva idee alquanto eterodosse, almeno per un petroliere. Il sarcasmo degli addetti ai lavori si coglie a piene mani quando si parla del suo rapporto con Emergency, oppure della sua simpatia per la causa degli indigeni del Chiapas, che lo portò ad un memorabile scambio epistolare con il Subcomandante Marcos. Per non parlare della candidatura a sindaco di Milano che gli offrì Rifondazione e che egli rifiutò solo quando gli fecero capire che molti della parte avversa avrebbero votato per lui. O ancora, del gemellaggio tra l'Inter e il noto ed eccentrico gruppo teatrale milanese della Comuna Baires, di cui ora racconta Renzo Casali in un breve e delicato libretto appena edito da Limina (Il Massimo. Moratti, il sogno possibile, pp. 115, € 17).
«È un petroliere, che faccia il petroliere!»: è questo l'adagio stizzito di quanti mal sopportano le sue sortite più sfacciatamente progressiste o i tifosi delle altre squadre che gli vedono comprare ogni stagione vagonate di calciatori, senza alcun attenzione a problemi di bilancio o di equilibrio. Ma Moratti non molla. Con discrezione, con misura, con garbo, con cocciutaggine, coltiva un progetto.
Se è vero che dietro ogni grande ricchezza c'è sempre un grande delitto, come dicevano suo padre Angelo e Bertolt Brecht (e come lui ripete convinto), è importante che chi appartiene alla parte privilegiata dell'umanità non si dimentichi della parte sfruttata e anzi si adoperi perché una parte di quel che viene «rubato» (ma in realtà «appropriato senza scambio», giusta la correzione di Marx a Proudhon: ossia il sovrappiù, da cui origina il profitto) venga restituito alle «vittime», cioè alla società stessa.
Si spiega così «Intercampus», un progetto internazionale che da dieci anni a questa parte ha regalato la gioia di giocare a calcio (e con la maglia nerazzurra) a oltre 10.000 bambini disagiati di 17 nazioni diverse, dall'Angola all'Uganda, dalla Bolivia a Israele, dall'Argentina al Camerun, dalla Bosnia alla Cina: un'esperienza unica, da cui Gabriele Salvatores ha tratto un documentario che il 3 dicembre scorso è stato presentato al Parlamento Europeo. E sempre così si spiega l'idea di devolvere le multe inflitte ai giocatori dell'Inter all'organizzazione umanitaria fondata da Gino Strada. Sono solo due esempi, e stridono alquanto al cospetto di altri e ben noti modi di coniugare calcio e potere.
Filantropia da bauscia, si dirà a questo punto dagli scettici. Non ne siamo convinti. Perché sembra aver questo di specifico Moratti: il convincimento che, davvero, non puoi dare nulla se non capisci chi è l'Altro. «Capire gli altri, mettersi nei loro panni, vivere i sentimenti, le necessità e, umilmente, dimenticare i propri privilegi e il temporaneo potere - scrive in una lettera a Renzo Casali - è un segreto che ci permette di risolvere velocemente i problemi che nascono fra noi, e questo vale sì nel calcio come nel lavoro e, insomma, nella vita».
Piuttosto, senza nulla togliere alla filantropia, ci piace pensare a un'altra cosa. Precisamente, alla rilettura di Horkheimer e Adorno del mito di Odisseo e le Sirene.
Ricorderete tutti il famoso luogo dell'Odissea: la promessa di felicità che promana dal canto delle Sirene maschera il pericolo di morte per quanti vi si abbandonano. Odisseo lo sa bene e intravvede due sole possibilità di scampo. La prima è quella che prescrive ai compagni, ai quali tappa le orecchie con la cera e ordina di remare a tutta forza: chi deve durare e sussistere non può prestare ascolto al richiamo dell'irrevocabile e può farlo solo in quanto l'ascolto gli è vietato. La seconda è quella che Odisseo prescrive a se stesso: egli ode quel canto, ma impotente, avvinto all'albero della nave a cui si è fatto legare dai compagni.
È una struggente metafora del capitalismo, spiegano Horkheimer e Adorno: anche i borghesi si negheranno la felicità quanto più, crescendo la loro potenza, l'avranno a portata di mano. Esattamente come i moderni lavoratori salariati, i compagni di Odisseo, che sanno solo del pericolo del canto e non della sua bellezza, lo lasceranno legato all'albero, riproducendo così, con la propria vita, anche la vita dell'oppressore, che non può più uscire dal suo ruolo sociale.
Ecco, Moratti è uno di quei rari borghesi che ha sentito il canto delle sirene della felicità. Ma diversamente da Odisseo, ce lo restituisce attraverso quella straordinaria affettività emozionale che ci viene dal comune entusiasmo per il calcio. Meglio ancora, sotto forma di bimbi sorridenti e felici di poter tirar calci a un pallone. «Nessuno mi toglie dalla testa che quest'uomo non può concepire il gioco del calcio senza gli affetti, senza la bellezza, la lealtà sportiva e un minimo di giustizia sociale», scrive Casali. E se ha ragione questi a suggerire che il calcio – proprio come il teatro – non è uno specchio che riflette la realtà, ma uno strumento che può aiutarci a vedere cos'è nascosto dietro lo specchio, sta a noi saper cogliere l'aspirazione ad un autentico legame collettivo che si cela dietro l'ingenuo cameratismo dei tifosi che, dopo una vittoria della squadra del cuore, gridano: «/Abbiamo/ vinto!». E agire – politicamente – di conseguenza.

P.S. Presidente, a proposito, quando la giochiamo 'sta partita in Chiapas?

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