sabato 13 ottobre 2007

Una squadra senza stranieri

Da sempre accusata di esterofilia, la Beneamata ha vinto lo scudetto con un solo italiano in campo: Materazzi. Dal motto «fratelli del mondo» all'Inter Campus di Teheran, storia di un club in cui vige una sola lingua, quella del calcio

Una delle principali critiche rivolte all'Inter dopo la vittoria del 15esimo scudetto è la nota esterofilia della rosa nerazzurra: su 26 giocatori in organico gli italiani sono solamente cinque (due portieri e tre difensori), mentre otto sono argentini, quattro brasiliani, tre sudamericani, sei europei non italiani. Se si considera che i due portieri (Toldo e Orlandoni) non hanno quasi mai giocato, e che Andreolli e Grosso, per differenti motivi, hanno dato un contributo piuttosto discontinuo, l'unico protagonista italiano della vittoria nerazzurra è Materazzi, il riabilitato di Berlino, uno che fino a luglio 2006 era considerato un mezzo psicopatico, uno dal quale stare alla larga. Sorvoliamo.
Sorvoliamo anche sul razzismo dell'accusa, speciosa e anacronistica in epoca di globalizzazione, e concentriamoci sulla sua motivazione: i critici difensori dell'amor patrio-calcistico sostengono che la Beneamata sarebbe anti-italiana, vuoi perché affetta da buonismo (sinonimo, chissà perché, di dabbenaggine), vuoi perché un naturale snobismo la porterebbe ad amare i talenti stranieri più di quelli italiani, con il risultato di distruggere i nostri vivai. In altre parole, l'Inter calpesterebbe la tradizione. Quale? Certamente non quella dell'Inter. Vediamo il perché.
La tradizione, la genesi e la weltanschauung dei nerazzurri si fonda su una dichiarata apertura internazionale al mondo. Sin dalla sua nascita, avvenuta a causa di un dissidio sorto in seno alla dirigenza del Milan quasi cento anni fa tra chi voleva una diminuzioni del numero di tesserati stranieri e chi invece voleva un'ulteriore apertura. In quella cospirazione, il 9 marzo 1908 al ristorante «L'Orologio» di Milano, il poeta pittore Muggiani, oltre a disegnare per sempre lo stemma - due cerchi, uno nero e uno azzurro, che su uno sfondo oro contengono le iniziali del club (

F.C.I.M.) - scrisse un motto che nel corso degli anni avrebbe attraversato alterne fortune (di grande attualità nel 1908, eretico dopo la marcia su Roma, addirittura illegale con le Carte di Viareggio introdotte nel 1929): «Questa notte splendida darà i colori al nostro stemma: il nero e l'azzurro sullo sfondo d'oro delle stelle. Si chiamerà Internazionale, perché noi siamo fratelli del mondo».
«I fratelli del mondo» avevano un solo compito: mantenere alta la tradizione. Non quella italiana, che da lì a poco ci avrebbe condotto alla guerra, ma quella dei padri fondatori che la vollero così, superba e internazionale. E così fecero sempre. Anche quando incapparono in polemiche e squalifiche, anche quando, attraversando epoche di ottusa chiusura mentale, furono costretti a cambiar nome pur di sopravvivere, rimasero sempre convinti, come ancora oggi risponde Massimo Moratti a chiunque glielo chieda, che per un (vero) interista «non è straniero neanche un marziano ». Figuriamoci un oriundo.
Si pensi al primo scudetto vinto dai nerazzurri. È il 24 aprile 1910. L'Inter, arrivata prima nel girone eliminatorio insieme alla Pro Vercelli, deve disputare uno spareggio a casa della Pro, che vanta un miglior «gol-average» (così allora chiamavano la differenza reti): proprio quel giorno, però, ci sono i giochi militari e i bianchi vercellesi non possono schierare il meglio della rosa. L'Inter, invece, che è infarcita di stranieri (nove su undici, compreso l'italo-svizzero Aebi) si presenta con la formazione migliore. Per protesta la Pro Vercelli mette in campo la quarta squadra. Si dice che il capitano vercellese, insieme al gagliardetto, consegni all'omologo nerazzurro Virgilio Fossati anche un gessetto: «così potrete segnare sul muro tutti i goal che ci farete ». La partita finisce 9-3, 10-3 o 11-3, non si sa. Virginio Fossati, che non è andato ai giochimilitari, morirà durante la prima guerra mondiale insieme ad altri 23 tesserati nerazzurri: i quali improvvisamente non erano più degli stranieri, non erano più degli italiani, non erano più niente: nel frattempo erano diventati soldati.


Si pensi alle polemiche e squalifiche cui è andata incontro a causa dei numerosi oriundi. Come Alvaro Recoba: il suo passaporto falsificato costò una pesante squalifica, accuse di slealtà sportiva, giustificò i detrattori della supposta onestà dei nerazzurri. Prima di lui, lo stesso Aebi, chiamato «la signorina dell'Inter» per i suoi modi «eleganti », di nazionalità elvetica, dichiarò di avere madre e padre italiani (anche se non era vero) per diventare il primo oriundo dell'Inter. Ugualmente Peterly - Peterli per i giornali italiani - giocò nella Nazionale svizzera una partita contro l'Italia per poi essere tesserato il giorno dopo dall'Inter, grazie a pressioni al limite del lecito. Si pensi a Vonlanthen, all'apolide Nyers o ad Angelillo, la cara sucia adottata dalla famiglia Moratti . E in epoca più recente, si pensi all'affetto per Kanu, alla Ronaldo-mania, etc.
Si pensi infine alla grande avventura degli Inter Campus, con i quali la Beneamata ha incominciato una specie di colonizzazione globale: piccole enclave in cui vige una sola lingua, quella del calcio, una sola bandiera, quella della pace, e dove a bambini in difficoltà viene trasmesso un messaggio di gioia attraverso il gioco. Avviati dapprima in Italia attraverso le scuole calcio, i Campus, grazie a una felice intuizione di Massimo Moretti (general manager quasi omonimo del presidenteMoratti), sono stati esportati una prima volta a Sant'Andres di Rio de Janeiro, in Brasile: «Tutto avvenne per caso - ci racconta Massimo Seregni, responsabile degli Inter Campus - Moretti aveva adottato una famiglia brasiliana in un paese a forte dispersione scolastica. Vicino c'era un campo da calcio. Venne l'idea di dire ai bambini: se la mattina andate a scuola, il pomeriggio potete allenarvi con la maglia ufficiale dell'Inter». Era il 1996. L'idea piacque. Si decise di estendere il progetto ad altri stati, con uguali o differenti problemi: Bosnia, Kossovo, Albania, Bulgaria, Marocco, Cuba. Dopo dieci anni sono 20 le nazioni coinvolte, per 20000 bambini tra gli otto e i tredici anni.


A volte l'Inter Campus è stato reso possibile grazie all'intervento di qualche giocatore, come Ivan Cordoba per quello di Medellin o Javier Zanetti per quello argentino. Oppure grazie a don Gino Rigoldi per la Romania o il Coe, un centro di volontari attivo in Africa, per il progetto in Camerun. «Sia ben chiaro - ci tiene a sottolineare ancora Seregni - che l'Inter non costruisce scuole calcio. Né tanto meno vuole andare a piantare bandiere. Non è questo tipo di colonizzazione che ci interessa. L'accordo viene fatto con strutture già esistenti, alle quali si offre la formazione per gli allenatori e i materiali per i bambini: non solo magliette, ma anche scarpe e guantoni. Non sempre è facile. In alcuni stati bisogna aprire canali diplomatici, in altri bisogna fare i conti con gli sconvolgimenti geopolitici: come quelli che ci hanno impedito di farne uno in Iraq».
Il prossimo Inter Campus sarà a Teheran. Perché la filosofia dell'Inter è sempre quella, la stessa dei padri fondatori il 9 marzo del 1908: costruire squadre in cui nessuno si senta straniero.


Matteo Lunardini
il manifesto, domenica 29 aprile 2007, pagina 14

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